domenica 13 gennaio 2013

Elena o la lavastoviglie - Donne sostituibili





ELENA

o

LA LAVASTOVIGLIE



Elena amava Peter, suo marito. Non altrettanto il senso cameratesco che lui troppo spesso sfoderava. Gli bastava incontrare qualche amico, passeggiando per la città. La prima cosa che gli usciva dalla bocca era: ” Dai, vieni a cena ... o a pranzo. Quando vuoi, basta un colpo di telefono”. A lui bastavano dieci minuti di preavviso. Il tempo per stappare una buona bottiglia di vino. Si comportava così anche se gli amici diventavano due o quattro o otto. Più erano e più sfoggiava il suo istrionismo. Elena si arrabbiava regolarmente. Accidenti, sempre all’ultimo momento e mai che glielo chiedesse !
Peter era bravo in cucina. Aveva il gusto innato della decorazione, il senso della coreografia, nonostante fosse un pessimo ballerino. Elena, per quanti sforzi facesse, non riusciva mai a mettere le fette di prosciutto sul piatto in modo decente. Sembravano degli straccetti desolati, naufraghi sulla scialuppa di salvataggio in attesa di soccorso, con poche speranze. Peter li appoggiava con garbo a distanza perfetta. Gli orli creavano sfumature digradanti, come la sottile traccia di schiuma bianca, lasciata dalle onde sulla spiaggia. Qualsiasi piatto, anche il più semplice, diventava appetibile. Anche Elena era brava in cucina. Il suo metodo di cucinare era però diverso da quello del marito. Le regole che le erano state tramandate dalla madre erano sacre. Il Verbo. Purtroppo questo valeva anche per lui. Per Elena non vi erano paragoni. Giudicava la cucina della suocera tra il cinque e il sei meno meno. Spesso le discussioni della coppia vertevano su come si lessano le patate. Le patate erano l’indice delle differenze culturali tra italiani e tedeschi. Era probabile che la prima grande guerra fosse scoppiata per una disputa sulla cottura delle patate. Di spaghetti non si discuteva, lei aveva una famiglia italiana alle spalle, come garanzia. Però che fastidio, quando lui metteva quel pezzetto di burro sul ragù... Come al ristorante, su quei sughi indecifrabili (da bambina aveva sentito dire molte volte: non ordinate il ragù, chissà quali avanzi ci mettono dentro!) Per Elena, quel pezzo di burro era quasi un affronto.
Nelle cene con e per gli amici Peter prendeva il sopravvento, lei veniva delegata ai lavori minori. Addetta alla ricerca degli ingredienti. Lui non trovava mai niente. Era più creativo che pratico. Peter era affabile, buon conversatore, a volte distratto. Apriva le bottiglie di vino e riempiva i bicchieri  discretamente ma implacabilmente, gli ospiti diventavano loquaci e a volte si lasciavano andare sonnolenti sul grande divano. Il conteggio dei vuoti a fine serata era sempre una sorpresa. Elena cercava di dare il meglio di sé. Peter si sentiva già, il meglio. Lei portava in tavola cibi ben preparati. Piatti su piatti. Peter voleva anche i piattini per l’insalata, poi per il dolce. Cambiava  posate e bicchieri in un crescendo vorticoso. Dopo una cena che a calcolo calorico sarebbe bastata per tre giorni, sorridendo diceva: ”Come mai non c’è la frutta?” Elena si vergognava e al momento taceva imbarazzata. Tutte le stoviglie che normalmente erano ordinate in pila in un bel mobile di faggio, riempivano ora la cucina in un’accozzaglia disordinata, unta e piena di rimasugli. Non uno spazio vuoto. Elena si stupiva sempre di quanto spazio occupino tre cambi di bicchieri per otto persone. A fine serata il risultato era catastrofico. Il mattino seguente i bambini avrebbero fatto colazione presto ed Elena si rimboccava le maniche incominciando a lavare i piatti. Tutti i piatti e le posate e le pentole che possedeva erano lì.  Peter sfoderando il suo sorriso migliore le diceva:” Bella serata! Io vado a letto, ti aspetto di là. Ti ho aiutato, vero?”
Elena finiva a notte fonda. Si buttava nel letto, sfinita. Peter era girato di spalle, la luce accesa. Lei si avvicinava: “Tesoro...”
“Siii ...”
“Non potremmo comprare una lavastoviglie?”
Peter dormiva già .

giovedì 3 gennaio 2013

3 gennaio 1985 - 3 gennaio 2013



L`INIZIO DELLA MIA SECONDA VITA

Incomincio a districare una matassa aggrovigliata di ricordi:
Suoni
Colori
Persone
Discorsi o frasi
Occhi mani
Stoffe tessuti

I luoghi:
1. La prima casa, un piano sotto
2. La casa sulla città
3. Uffici di polizia
4. Un ufficio del tribunale
5. S. Giacomo

Si può ricordare, raccontare, leggere una storia diventata "di cronaca", al di fuori della
cronaca, al di fuori del già letto, scritto, raccontato?
Si può usare un filo diverso, una memoria delle cose, delle sensazioni.
Si possono dimenticare immagini violente (che sia una difesa?) e fermare in noi  tracce di odori, colori, suoni  incisi così profondamente da essere indelebili. Che sia una difesa?
Cerco una memoria diversa che mi aiuti a non dimenticare, cerco la mia personale ricostruzione dei fatti, che ho vissuto e che, raccontati da altri sono stati travisati, trasformati a tal punto da perdere il contatto con la realtà .



Una bambina   (Roma, 1979)
In giro per la città. Cosa fare con una bambina di dieci anni?
Lo zoo. Uguale e triste come nelle altre città. Il museo etrusco. Che sbadigli.  Trovato!  San Pietro.
Le cose di rito. Alla ricerca del punto da dove il colonnato si riduce alla metà della metà. Magia!
La basilica è ancora più grande, vista da un metro e mezzo scarso. Le scale per salire sulla cupola, fanno soffrire me, non lei. Dov’è il Papa? E quella è la piscina del Papa? E i giardini? Tutti suoi? Mamma, allora è ricco! 
La Pietà di Michelangelo la stupisce. Così piccola e bianca.
Al ritorno a casa di amici, le chiedono qual è la cosa più bella che ha visto: "la Pietanza di Michelangelo"!



1. Suoni

Un urlo. Profondo, violento, lontanissimo, come nel ricordo di altri tempi.
E' mio. Proviene da me, dalla mia bocca, dai miei polmoni, dallo stomaco, dalle mie viscere.
Rimane nell'aria un numero infinito di secondi. Poi, silenzio. Nessun suono rompe l' aria.
Niente auto, niente passi, voci di bambini, niente.
Nella mia testa il vuoto assoluto, la città ferma, immobile in un gelido, grigio pomeriggio di gennaio.
Poi altre voci, altre grida. Prima una, due, poi sempre di più in una confusione assordante, l' una sull'altra, rincorrersi e coprirsi, sovrastarsi e spegnersi, per poi ricominciare.
Tutte uguali. Dicono tutte le stesse cose, addirittura le stesse frasi, le stesse parole. Cerco parole diverse, guardo bocche diverse che ripetono parole uguali. Sembra abbiano imparato a memoria una poesia senza senso, rimbalza dall' uno all'altro.
Una sirena, forse due.
Un suono lungo e profondo.
Nella confusione lo scambio per un suono di speranza. Un' ambulanza. Uno straordinario mezzo di salvezza. Lentamente, come una stella cometa si allontana all' orizzonte, si spegne.
Sono sdraiata su un divano non mio e rumori di passi ovattati e bisbiglii vengono dal corridoio.
Non riconosco i passi e non capisco le parole. Qualche viso sconosciuto si affaccia alla porta, non riesco ad abbinarlo ai passi, ne alle parole.
E' notte. Esco di casa. Mi da fastidio il rumore dei tacchi sul marmo grigiastro dell'ingresso. Ho paura che mi vedano. Vado avanti perché altri passi accompagnano i miei, vorrei volare sopra il terreno e diventare trasparente.
Attraverso la città silenziosa e finalmente piango.


1. Stoffe - tessuti

La stanza che mi accoglie ha carta da parati. Forse una stoffa. Sono senza occhiali e non vedo bene. E’ damascata; forse andrebbe bene in un ampio salone, pieno di spazio vuoto. Questa stanza, abbastanza grande, é zeppa di mobili in stile e il disegno che si rincorre sulle pareti la rende più piccola, intima mai.


2. Stoffe - tessuti

Un fazzoletto bianco. Tutto intorno un pizzo leggero. Deve essere vecchio, forse un caro ricordo, sicuramente prezioso. Lo ricevo dalla più cara amica, in un momento di emozione. E` morbido e delicato. Penso che sia l' unico tocco di gentilezza. Quel fazzoletto così bianco racchiude in sé l' amore, la purezza, le cose più dolci della vita.


1. Occhi - mani

Ricordo bene i loro occhi sfuggenti. Occhi di giovani imbarazzati, che non hanno dove posare uno sguardo in questo giroscale di condominio.
I loro occhi vagano sperando di non incontrare i miei. Corpi con le mani nascoste. Chiedo di passare, non sanno rispondermi, sbarrano la scala con le loro divise carta da zucchero.
Si é formato un muro  di angoscia e di silenzio tra di noi. Mi giro e torno indietro.


1. Discorsi - frasi

Sdraiata su un divano non cerco nemmeno di capire.
Entra un uomo. Non lo conosco. Forse  dice il suo nome, il mio cervello non lo registra.
Dice poche parole, le butta su di me con noncuranza e mi ritrovo a fare conti assurdi e la mia vita finisce.
"Quanti coltelli ha in cucina ?"



1. Occhi - mani

“Io sono la nonna”.
Occhi, lo sguardo fisso a terra,  per non incontrare altro sguardo,  per non vedere.
Le sue belle mani senza energia, una a sorreggere il capo, l'altra abbandonata in grembo.
Un'immobilità che sprigiona dolore e sgomento. In modo automatico ripete a me e a se stessa:  "Stai tranquilla, stai tranquilla".
Due madri.


2. Persone

Nella stanza filtrano solo suoni ovattati. Discorsi sussurrati, passi leggeri. Ogni tanto qualcuno di famiglia viene a vedere se dormo o piango o desidero ricevere le visite degli amici più cari. Sono in molti e scopro la sincerità dei loro sentimenti insieme alle loro lacrime e alla loro incapacità di darmi conforto. Nel silenzio di quei momenti vi é tutta la verità  della nostra amicizia.
Ora mi dicono con un filo di voce che sono arrivati mio padre e mia madre. E’ un momento che temo. Ho bisogno di loro, ma non so affrontare tutto questo dolore. Ci abbracciamo fortissimo, siamo dei naufraghi attaccati ad una tavola che non può reggerci. Tra mia madre e me non ci possono essere parole, tutto é troppo grande per noi. "Papà" dico "non piangere" . Risponde solo : "Ti prego, lasciamelo fare, ne ho bisogno".


2. Persone

Mi annunciano una visita e si premurano di chiedermi se sto bene, se ce la faccio. Mi dicono che al citofono si presenta non con nome e cognome, ma con la qualifica : il Procuratore della Repubblica. Non mi angoscia la sua presenza, ma la mia impossibilità a dare risposte. Non so quanto tutto questo duri, mi accorgo che i miei parenti entrano spesso nella stanza per sincerarsi delle mie condizioni. Rispondo ad una sequenza infinita di domande che ritengo inutili, folli. Dovrei essere io a fare domande. Sono io che non capisco. Mi guarda fisso, con gli occhi lievemente socchiusi, mi fa sentire colpevole, sporca. Continua incessantemente a chiedere, mi pone più volte le stesse domande. Sono stanca, sfinita, vorrei stare sola,  mi chiede a bruciapelo: "Il suo ex-marito potrebbe uccidere sua figlia?". Un Procuratore pieno di tatto.


1. Persone

Non so quanto tempo é trascorso. Alla porta si affacciano spesso visi sconosciuti. Un uomo entra nella stanza, viene verso di me e mi rivolge alcune domande. Sembra prassi comune non presentarsi. Lo scambio per uno dei tanti poliziotti. Ho il tempo di dirgli che non so, non capisco, ed entra nella stanza un altro uomo che ad alta voce lo manda via e rivolgendosi a me : “Ma come, lei parla con un giornalista?”.


1. Persone

E’ strano, ma non riesco a ricordare il momento in cui ho visto Karl.
E’ questo uno dei momenti che il troppo dolore ha cancellato dalla mia mente. Ho la sensazione di avere vissuto solo occhi, sguardi persi nello stupore.


1. Persone

Arriva Giuseppe, uomo di chiesa. E’come se la mia anima si aprisse  di colpo. Mi esce dalla bocca un fiume incontrollato di parole. E’ seduto sul divano, vicino a me e ricordo solo che dice : “ No, non dire così”.
Mi dirà in seguito di essere rimasto impressionato dalla profondità dei miei discorsi, ma non ne ho che vaga  memoria.


1. Frasi

"Signora, guardi che qui non c´è il tenente Colombo!"
(un "signore" della Squadra Mobile)


3. Colori

Il poliziotto mi prende le dita ad una ad una e le preme sul cuscinetto intriso d´inchiostro nero. Poi ruotandole le appoggia sulla carta bianca.
Le mie impronte sono delle macchie informi. Mi spiegano che devono rilevarle per "escluderle" dalle altre. Mi sento a disagio. Mi viene dato un barattolo contenente una pasta biancastra da spalmare su quelle macchie nere. Mi lavo freneticamente quella fanghiglia dalle mani. Più e più volte, come se potessi lavare via tutto il dolore.


5. Persone

C´è troppa gente. Quasi non riesco ad entrare. Mi faccio strada sospinta da altri e trovo un posto nascosto. Vedo intorno i visi dei miei cari e molti volti sconosciuti. Davanti, a sinistra, un mare di fiori. Sono  spettatrice di un evento che non mi appartiene. Mia figlia è dentro di me insieme a quel mare di fiori.


5. Colori

Cammino dietro ad una macchina nera. È disperatamente lenta. Le sto troppo attaccata, fissando lo sguardo sul bianco della cassa. Mi ripeto ogni passo, che lei non è lì.


3. Persone

Mi fanno accomodare. Intorno alcune persone: il procuratore, una segretaria, un signore robusto, con un cappello in testa, di cui non afferro il nome.
Il procuratore inizia a parlare. Le sue frasi scivolano sulla mia mente senza lasciare traccia.
Prende un fascicolo con il nome della mia bambina scritto con un pennarello, lo apre, lo sfoglia lentamente, lo gira verso di me ponendomi una domanda che non sento. Sento le orecchie ronzare, la vista si appanna, mi sento scivolare verso il basso. Due braccia forti mi prendono e insieme chiudono con stizza la teca con la fotografia di mia figlia morta.
Ho continuato a pensare al tenente Nocito come ad un angelo.


5. Persone

Non ho la forza di mettermi, con alcuni dei miei familiari, in fila a stringere mani.
Mi avvio lentamente verso l´ingresso principale, che mi pare lontanissimo. Sento dei passi seguirmi e una voce maschile pronunciare il mio nome. Il mio direttore si fa avanti, commosso. L'unica persona che è riuscita a vincere il muro impenetrabile di dolore che mi si è costruito intorno. 


5. Persone

La macchina mi aspetta davanti all'ingresso principale. Sul sedile posteriore è seduta mia madre. Non so come sia arrivata lì, prima di me. Immagino il suo passo veloce, gli occhi fissi a terra, per non vedere nessuno e con la speranza infantile di non essere vista. Mi siedo nell' auto, gli occhi sfuggenti, ci scambiamo una frase banale per non superare quel sottile velo che ci separa da un pianto irrefrenabile.


Colori - Occhi - Mani


Ho bisogno di vederla. Devo ritrovarla. Il giaccone nero ha il cappuccio alzato, il bordo di pelliccia grigia incornicia il suo volto.
Sotto, la sua prima camicetta da sera, grigio argento ed il pullover che le avevo fatto, una nuvola rosa. Piccoli fiori tra le dita intrecciate e vicino, la sua bambola, per non farle troppo male.
Di ogni cosa ho memoria, non del suo volto.
Esco, disperata, dicendo che non é lei. 
1. Occhi

Non so che ore siano. Arrivano due amici. Uno è un noto politico, l' unico che abbia visto, ma soprattutto un ottimo amico. Gli occhi azzurri, con un'espressione allibita, pendono all'ingiù. Un abbraccio e una frase: "E noi che abbiamo parlato tanto di non violenza!" 


L’immaginario non è mai tanto violento, quanto la realtà.





La farfalla
La fragilità delle ali su un corpo tozzo. La bellezza dei colori e il grigio vellutato.
Una farfalla segue la mia vita. Da pochi anni. Non da sempre.
Una farfalla brunetta.
Le ali a piccole macchie arancioni. Sembra che un raggio di sole si sia posato un istante, lasciando un segno indelebile.
Un segno. Il segno.
Appare all’improvviso.
Sempre in momenti particolari.
Mi gira intorno più volte. Si ferma. Un fremito nelle ali.
A volte sulle mani, a volte su una spalla. Vola nuovamente in cerchio. Cinque, dieci minuti. E via.
A volte torna dopo qualche ora. A volte passano mesi.
Sempre in momenti particolari. Mai per caso.
Vicino ad un nonno ancora inconsapevole della sua malattia. Vola a lungo e lui la riconosce. Dice: vedi, è qui. Passano mesi difficili. Torna a posarsi su mani di donna. L’uomo della sua vita se ne è andato. La farfalla brunetta posa i suoi milligrammi che sollevano lo spirito. Dice: vedi, sono qui. Appare quando la nostalgia mi avvolge. Anche in una sera di dicembre. Fuori gela. Grandi ali volteggiano in casa. Lo stupore è grande. L’accompagniamo delicatamente fuori. Ho paura che muoia di freddo. So invece che non sarà così. Mi lascia sul tavolo un piccolissimo frammento di colore.
Dice: vedi, sono sempre qui.