domenica 17 febbraio 2013

Bruna o il cane da tartufi - Donne sostituibili



BRUNA
o
IL CANE DA TARTUFI

“Chiudi gli occhi ... rilassati ...”
“Già, facile a dirsi, con tutto quello che ho da fare ... sì, mi rilasso ... e se mi viene in mente che non so cosa fare per cena?”
“... Rilassati e prova ad immaginare ... sei all’aperto, in un prato ...”
... No, sono in un bosco ...”
“Si va bene ... ecco, senti dei suoni leggeri  ... fruscii... canti di uccelli  ...”
“Sì li sento... il sole filtra tra i rami ... sento il canto degli uccellini ... mi viene in mente che mia madre una volta li ha fatti con la polenta e l’ho odiata”.
“No, non distrarti, non aprire gli occhi, concentrati ... sei nel bosco e sei un animale ...”
“Sì, un animale ... un cane ...”
“Un cane? Nel bosco?”
“Sì un cane, non che mi entusiasmi il fatto di essere un cane, io so fare tante cose benino e non so perché di un cattivo attore si dica che è un cane, i cani sono attori bravissimi, Lassie e Rin Tin Tin hanno fatto storia. Non capisco nemmeno se si dice - quello lavora come un cane - che qui da noi i cani non fanno niente tutto il giorno. Non è mica faticoso essere portato a passeggio tre volte al giorno per fare pipi e popò e poi stare sdraiati tutto il giorno su un tappeto.”
“Va bene, va bene, sei un cane ... cosa fai nel bosco? Annusi gli odori intensi della natura?”
“Vado a tartufi!”
“A tartufi? Sei un cane da tartufi? In tanti anni di terapia non ho mai sentito niente di simile. Un cane da tartufi, interessante! Cara Bruna, come mai?”
“Il cane da tartufi cerca, cerca incessantemente e mai per sè, trova sempre per l’uomo.”
“Sorbole! Tu cosa cerchi incessantemente?”
“Di tutto. Calzini, forbici, cacciaviti, mutande, nastro adesivo, occhiali, penne, libri, spaghetti, barattoli, calzascarpe, giornali, calcolatrici, tazze, smacchiatori, classificatori, ombrelli, pennelli, caramelle, cravatte, pinzette, dentifrici, sciroppo per la tosse, cerotti, cappotti ... di tutto, ecco.”
“Ma dove diavolo vivi? In un magazzino? Fai l’inventario?”
“A casa vivo, a casa mia, con marito e due figli.”                  
“Cerca di darmi una spiegazione logica, anche se dovrei dartela io.”
“Non trovano mai niente. Ma dico niente, mai niente. Dov’è questo, dov’è quello, è lì, non lo trovo. Non-lo-trovo. Mai una volta che trovino qualcosa. Anche se l’hanno davanti al naso e io che magari mi sono seduta in quell’istante, devo alzarmi e andare a prendere quello che cercano. Ti avevo detto che era qui. Non l’ho visto, ma se era davanti al naso! Non-l’ho- visto. Non ho mica una famiglia di talpe!”
    “Difficile darti il consiglio giusto, ehm, vediamo, potresti non cercare più niente e lasciarli nel loro brodo. Credo che un’indicazione verbale sia più che sufficiente, oppure fare una lista di oggetti con indicato il posto in cui trovarli, mmh, no, no, verrebbe fuori un libro grosso così. Cercherò di studiare un sistema soddisfacente per tutti. Puoi metterti la giacca, ne riparliamo la prossima volta.
A proposito, avevo qui la mia penna, l’hai vista per caso?” 

giovedì 7 febbraio 2013

Anna o il ferro da stiro - Donne sostituibili


ANNA
o
   IL FERRO DA STIRO

Nascere donna era così difficile! La strada le sembrava inesorabilmente in salita. Trovarsi poi ad organizzare e gestire una famiglia di uomini diventava un’impresa. Un marito e due figli maschi. Johannes, il marito, era un uomo curato ed elegante. Sempre a contatto con professionisti, curava molto il suo abbigliamento. Giacche di ottima fattura, pantaloni in lana fredda, solitamente grigi. Anna lo chiamava “color manager”. La piega sempre in ordine. Bellissime cravatte, comprate da sé. Quelle scelte dalla moglie venivano indossate nelle occasioni di famiglia. Anna pensava di avere sufficiente buon gusto, ma non collimava mai con quello del marito.
Johannes comprava i suoi abiti da solo. Ci metteva pochi minuti. Le poche volte che Anna l’aveva accompagnato era rimasta delusa e un po' frustrata. Come era possibile comprarsi un abito così costoso, senza provarsene almeno tre! Senza girare oziosamente nel negozio e farsi catturare da un colore, da una stoffa. Anna doveva sentire che quel capo era lì per lei. Che sarebbe stato perfetto. Doveva entrare dagli occhi per arrivare al cuore. Era un tragitto che occupava del tempo, un innamoramento. Johann comprava quando serviva. Si infilava una giacca e diceva “la prendo”. Punto e basta. Il padrone del bellissimo negozio lo amava. Era veloce, non gli faceva perdere tempo, era subito soddisfatto, pagava con carta di credito senza fiatare. Per questo gli mostrava i capi migliori e faceva subito uno sconto importante. Johannes portava a casa bellissime camicie e Anna alzava gli occhi al cielo. Sopra di lei incombeva la piccola, ma oscura ombra del ferro da stiro.
Simone, il figlio maggiore, aveva i suoi gusti. Braghe di due taglie più grandi, in cui le sue gambe da giraffa navigavano senza farsi mai vedere. Da come camminava si supponeva la loro presenza, ma chissà dove. Anna gli metteva una cintura sul letto e lui la ignorava. I pantaloni dovevano essere cascanti, la vita sui fianchi e il cavallo a metà coscia. L’elastico delle mutande rigorosamente in vista. Eresia parlargli di fare un orlo, almeno per salvargli i denti. Con le scarpe da ginnastica tecnologiche slacciate (numero 46, anche se portava il 44), scendeva le scale trascinando quindici centimetri di stoffa straripante. Anna pregava, pensando all’ultimo conto del dentista. Camicie, maglie, felpe erano in proporzione. Johannes sosteneva che più si allargavano i vestiti, più si restringeva il cervello. Lo chiamava “l’inversamente proporzionale”. Simone tornava in camera sua borbottando “out, out”. Si cambiava per uscire con Silvia, lasciando gli abiti ancora puliti in un mucchio accartocciato, che li avrebbe resi inservibili in pochi attimi. Qualche volta ci si sedeva sopra. Anna pensava che in quella felpa ci sarebbero stati tutti e due, lui e Silvia. Era meglio di un alcova. La mattina dopo Simone la guardava, con languido occhio bovino, implorando una stiratina. Per i professori, non per lui.
Luca era il più piccolo, ma guai a farglielo notare. Aveva un armadio generazionale. Pantaloni, camicie, maglie di tutte le misure, passati dal fratello e dai cugini. Lui ereditava con rassegnazione. Quando Simone  non era in casa, Luca si provava i sospirati pantaloni extra-large. Guardandosi allo specchio gli veniva da piangere. Possibile che non cresceva mai abbastanza? Luca, in quanto a disordine, batteva Simone cinque a uno. Con un’aggravante. Non erano solo mucchi più grandi, erano maleodoranti, quasi vivi. Anna si ricordava di quei vecchi film di fantascienza, in cui prendevano vita le cose più assurde e imprevedibili. Immaginava il mucchio puzzolente trascinarsi lentamente per il corridoio, lasciando una striscia grigiastra sul pavimento di frassino chiaro. Ogni sera Luca lasciava un ammasso composito. Calzini ripiegati su se stessi, accartocciati in modo doloroso. Pantaloni con ginocchia verdi d’erba e marroni di fango. ”Mamma, non capisci che i portieri devono cadere per parare?” Magliette con patacche variopinte qua e là. Luca aveva il potere di sporcarsi con qualunque cosa, cibo o altro. Aveva due mani sinistre senza essere mancino.
Anna possedeva una lavatrice eroica. Avrebbe meritato una medaglia al valore o almeno un titolo onorifico. La prima lavatrice Cavaliere del Lavoro. Lavorava incessantemente da anni senza prendersi mai ferie. Solo una volta si vendicò facendo un bucato a 90°, nonostante fosse programmata a 30°. Ridusse le magliette dei ragazzi a misura di Cicciobello e fu riportata alla ragione da un tecnico specializzato. Lo stenditoio in acciaio inox aveva ormai le stecche ricurve dal peso dei bucati stesi giorno dopo giorno. Un giorno o l’altro si sarebbe ripiegato in due, sfinito, con un lamento, per l’ultima volta.
Anna, sola in casa, affrontava quella battaglia quotidiana. L’asse da stiro gemeva sinistramente. Un piedino gommato liso la faceva lievemente dondolare. I fiori gialli della stoffa cominciavano a confondersi con i segni delle stirature. La collina formata dalle camicie di suo marito, non calava mai. Anna si perdeva pensando a quei manichini delle tintorie che, ad un comando, ingrassano di dieci chili stirando perfettamente la camicia che indossano. Una dopo l’altra, senza fatica. Un giorno suo marito entrò in casa, vide le pile di biancheria stirata, già  divise, pronte per essere messe negli armadi. Disse: ”che buon profumo di stirato!” . Anna gli chiese se non fosse il caso di prendere una donna in aiuto per stirare almeno la biancheria o una di quelle belle  macchine che vendevano sotto i Portici. Lui sorrise pieno di comprensione e dandole un buffetto sulla guancia, disse:
”Cara, tu sei così brava a stirare, perché vuoi spendere soldi per niente?”