lunedì 30 dicembre 2013

"L'insegnamento mancato"



Santo Stefano 2013 - A Solda è una giornata tranquilla e nevica da due giorni come in una cartolina. Verso le due di pomeriggio manca la corrente, strano ma non troppo. Capita spesso in alta montagna. Controllo il contatore, non sia mai che abbia acceso qualcosa di troppo. Niente, va bene, la corrente tornerà. La casa è calda, anche se il riscaldamento si è fermato non c’è problema.  Passano le ore, boh, chissà, sarà caduto qualche albero. Wind va, Tim e Vodafone no. Ma dov’è il ripetitore? Quella torre lassù vicino al Ka zwei, il rifugio. Salta anche Wind. Senza corrente, il ripetitore non ha segnale. Internet nemmeno sognarselo. Il paese è a macchia di leopardo, zone di buio e zone illuminate. Il rombo mi ricorda che gli albergatori hanno acceso gli aggregati, i bastardi, vabbè ma la corrente tornerà. La porta del garage è bloccata e speriamo che non mi serva la macchina. Ho in casa un sacco di candele e l’atmosfera diventa persino romantica. Avete presente quel sistema di riscaldare con i vasi di coccio sulle candele? Ecco, si potrebbe ma non ho vasi, niente… vabbè, ma la corrente tornerà. Mi viene l’irrazionale voglia di accendere la radio, la tv, il forno, il microonde, tutto quello insomma che è fuori discussione. Il gas funziona e la cena è salva. Giochiamo in solitaria a solitario finché la batteria del telefono, che comunque è a “nessun servizio”, si scarica. Bene. Che si fa? Si va a dormire, è buio pesto, che ore sono? Le nove e quindici. Sic! Aspettando la luce si va a letto che fa freschetto. 
La mattina dopo - niente ancora, accidenti come mai?- ci si veste alla svelta. Un caffè e fuori a fare una passeggiata che c’è il sole. Le seggiovie sono ferme. Sai che incazzature i turisti arrivati per le vacanze (anche quelli fermi in fila a cercare di capire come montare le catene). Vabbè, ma la corrente tornerà. Il pomeriggio trascorre lento, i colori si diluiscono in variazioni di azzurro. Si rimane a pensare, ore per riflettere, per perdersi. In casa ci sono otto gradi, la tavoletta del wc sembra fatta di ghiaccio. Ci si muove con la candela in mano, fa tanto piccola fiammiferaia. L’unica stufa a legna, ignorata finora perché tanto torna la corrente, si prende la sua rivincita. Riesce a rendere vivibile una stanza adibita oramai a soggiorno, camera da letto, sala da pranzo, rifugio antiatomico. Il sonno ci prende alle otto di sera, con il crepitio del legno e il gatto che fissa preoccupato le fiamme. Ricordi atavici. La notte è fonda e profonda.
Alle sei di mattina con il fuoco ormai spento e la stanza fredda, apro gli occhi, cavoli, vedo le stelle che filtrano dalle imposte. Stelle? Quali stelle, sono le lucine di natale, l’unico settore che funziona… ma allora la luce è tornata! Mi butto fuori dal piumino e apro la porta.  Tutte le luci sono accese e il rumore della caldaia è musica. Trentasei ore di tregua dalla civiltà e l’unico desiderio che ho è di ritornare alla normalità. Felice, passo l’aspirapolvere. E’ vero che l’uomo impara poco. Anche la donna.

martedì 17 dicembre 2013

Una voglia bastarda

Devo scrivere, devo scrivere. Una specie di fuoco mi prende partendo dallo stomaco. Fino alle dita. Una tastiera, ho solo bisogno di una tastiera. Come se bastasse. Come ci si potesse svuotare anima e corpo e gettarli in questa pallida luce lattescente. Svuotarsi, svuotarsi. Che ansia. Da dove comincio. Dalla fine, nei film si incomincia dalla fine e ci si mette un po' a capire che quella é la fine. La fine del film é l'inizio. Magari fosse così, l'inizio, Ma l'inizio di cosa. Noia. Ansia. Sei negativa, mi diceva lui. Non hai pensieri positivi, mi ripeteva dall'alto della sua posizione di comodo. Una moglie "con cui sono felicissimo" e io. Io non sono un'amante - che sarebbe squallido, io non faccio certe cose- . Cercati un altro, mi ripeteva, che io non ho tempo da dedicarti. E intanto veniva da me ogni attimo. E le notti a dormire - ho detto che dormo in ufficio - e giorni di vacanza al mare - ho detto che è per lavoro -. E lei dorme nella sua sicurezza. Dorme e non vede, forse. E a me viene la voglia di mandarle un fotografia, un dettaglio, un letto sfatto, un lenzuolo stropicciato. Due beauty-case vicini sul lavabo del bagno. O far cadere una pinza per capelli sul tappetino della macchina. Ci salirai prima o poi. Salirai sulla verità scomoda della vita, delle bugie, delle illusioni. Mica devo starci solo io su quel carro. E' la mia voglia a esserlo, io non sono così bastarda. Forse.

martedì 19 novembre 2013

Lilia


A te, Lilia, minuta e forte donna che ha condiviso una parte del mio cammino nella vita. Che parte ti è toccata, la peggiore, la più pesante e invivibile per chiunque. L'abbiamo vissuta e passata con un ombra diversa negli occhi, con l'inevitabile sensazione comune del dolore, con il senso di un filo d'acciaio tra noi che non si sarebbe mai spezzato. Quante volte mi hai detto che per te rimanevo solo io, che ero forte e brava, che sembravo una ragazzina. Io che avevo timore di te, della tua perfezione, della tua educazione, della tua classe innata, del tuo giudizio. Tu mi facevi complimenti e io pensavo che di te non avevo capito niente. Magari non ci sentivamo per un po' e alla prima telefonata il tempo trascorso si annullava. Negli ultimi tempi hai voluto vedere Anna "la popa". Come Marcella "la popa". Mi dicevi cose che non potevi dire ad altri, sapevi che avrei capito e anche sofferto di alcune. Mi dicevi chi volevi o non volevi vedere. Come se io avessi potuto aiutarti a non ricordare, a non soffrire ancora. Non potevo fare nulla e lo sapevi ma io ero lì. Ora ti penso in chiacchierate infinite, in abbracci e baci, in occhi vivaci. Tienimi una mano sulla spalla Lilia

1. Occhi - mani 3.01.1985

“Io sono la nonna”.
Occhi, lo sguardo fisso a terra,  per non incontrare altro sguardo,  per non vedere.
Le sue belle mani senza energia, una a sorreggere il capo, l'altra abbandonata in grembo.
Un'immobilità che sprigiona dolore e sgomento. In modo automatico ripete a me e a se stessa:  "Stai tranquilla, stai tranquilla".
Due madri.

giovedì 10 ottobre 2013

Dare la vita


allora, io penso
sono sul mare, schiacciata in mezzo a uomini e donne e bambini, non c'è posto nemmeno per respirare, il bambino dentro di me ha fretta, fretta di vedere questo mondo che crede bello e colorato. le doglie mi prendono, occhi e mani mi guardano e forse gesti mi aiutano. sopra, sul ponte, c'è odore di fumo che si mescola ad altri odori intensi, di fatica e disperazione. la barca ondeggia sempre più forte e il mio bambino arriva, con un dolore come le onde. non faccio in tempo nemmeno a prenderlo in braccio che il barcone affonda col suo carico di urla. dare la vita e perdere le vite

mercoledì 7 agosto 2013

È stato un lampo nocciola

È stato un lampo nocciola.
E' partito dai tuoi occhi o forse da uno solo, bagnati dal mare, ha attraversato i miei, é rimbalzato sul cuore e ha preso la direzione dello stomaco. Volevo si fermasse, che il tragitto era stato lungo, invece è sceso in verticale . Lì ho capito che avrei avuto nostalgia di te per il resto dei giorni.

martedì 28 maggio 2013


Prenotare e stare in fila




Disneyland, Paris. 
Le parole d’ordine sono fondamentali: P R E N O T A R E  e  S T A R E  I N  F I L A .
Si prenota tutto ed è la prima cosa di cui mi avvisano appena arrivo, dopo aver prenotato il volo e l’albergo. Può sembrare ovvia la prenotazione di un tavolo per la cena. Lo si fa anche nella propria città. All’affollato banco „Reservation„ mi chiedono con voce flautata per che ora desidero prenotare la prima colazione. Dalle sette ogni mezz’ora un turno. Considerato che vado in vacanza senza sveglia, inizio a indentificarmi con i forzati. La mattina seguente assisto al turno seguente, che divora il buffet come un'ondata di locuste africane. La differenza è nelle briciole rimaste. Le locuste non avrebbero avuto pietà. I turisti sono minimamente educati.
L’albergo è dotato di una bellissima piscina, ogni comfort, scivolo e idromassaggi, ma per che ora voglio prenotare? Mi perdo in calcoli sulla stanchezza delle masse.
Nonostante la prenotazione mi ritrovo in fila. Più corta di quella di coloro che non hanno prenotato, ma sempre e comunque in fila. Sono talmente abituati ed organizzati a gestire code che, con appositi cartelli, molto gentilmente, danno i tempi di attesa: „Da questo punto 30 minuti di attesa“. O 60 o 15 o 90. Così uno sa come passare il tempo. Posso, tenendo stretto il posto, ammirare il paesaggio, indovinare la nazionalità delle persone dall’abbigliamento o cercare di decifrare le scritte della T-shirt del metro e novanta norvegese davanti a me. Imparare le lingue è sempre un vantaggio. Posso imparare il nome di una carrozzeria di Trondheim o una parolaccia. Fa sempre parte del bagaglio culturale. Le attrazioni durano in media quaranta secondi. Sono attimi che lasciano meravigliose code nella memoria.

venerdì 24 maggio 2013

Disneyland, Paris 1997



Una signora bionda e molto grassa si accomoda con la sua famiglia al tavolo accanto al nostro. Una coppia con due bambini. Dal mio posto riesco a vedere l’uomo, anonimo, un po' in carne e molto stempiato. Una camicia a quadri è tutto il colore che ha. La bambina alla sua destra è piccola, forse ha tre anni, è carina e abbronzata. La signora e l’altro figlio mi voltano le spalle. Noto il colore diverso dei capelli, della pelle ma l’assoluta somiglianza della struttura fisica. Osservo che, nonostante queste diversità di colori, si vede proprio che sono madre e figlio. Arriva un cameriere ed il bambino si gira verso di lui. Ha caratteristiche somatiche di un’altra etnia.
Cosa può fare una perfetta adozione alimentare. 

giovedì 9 maggio 2013

Herat, 1973



Il dottor Rashid ha i capelli neri e un dritto naso indoeuropeo. Si da da fare come può in questo ospedale cadente e poverissimo. Sui pavimenti delle stanze vi sono tappeti che non hanno più memoria dei colori originali e che da secoli nessuno pulisce. Il suo paziente europeo è abbastanza mal ridotto. Un piede con le ossa spezzettate, un gesso messo a occhio da un compagno di viaggio e molto dolore. In ospedale non vi sono medicine, chi ne ha bisogno deve andare pazientemente a cercarle nelle farmacie sguarnite della città. Il dottor Rashid si occupa personalmente della ricerca e torna con alcune fiale di morfina. A sera, per far riposare il suo paziente gli inietta mezza fiala; con aria sconsolata guarda quel ben di Dio, si inietta l’altra metà e resta a parlare con lui tutta la notte.


lunedì 8 aprile 2013

Profumo di torta


Anni '60

Buono, profumo di torta. E' domenica.
Il profumo è rimasto nei ricordi. Legato, come un matrimonio religioso, ad un giorno della settimana. E solo a quello. È l'odore di casa, la prima grande casa.
In tempi migliori mescolato, agrodolce, al profumo del pollo arrosto. Solo la domenica. Con il boom economico, praticamente ogni domenica. La conquista del sospirato pollo. Il naso gioisce e le papille si sciolgono. Il gatto gioca con una zampa del pennuto, lanciandola in aria.
Seguo la disordinata crescita dell’amata, dal vetro giallastro del forno. Attesa.
Ma quanto ci mette a cuocere e quanto a raffreddarsi?
Prima la pasta, poi il pollo e le patate e l’insalata. La radio accesa e le chiacchiere. Mio padre vuole sentire il notiziario e non ci riesce. Attesa.
E la torta sempre li a guardarmi.
E' ora, il primo boccone mi fa venire il singhiozzo. Troppa fretta. Le papille soddisfatte ringraziano riconoscenti.
Finalmente domenica.
Ancora oggi potrebbero torturarmi con una torta davanti al naso.

domenica 24 marzo 2013

Alice o l'aspirapolvere - Donne sostituibili


ALICE
o
L'ASPIRAPOLVERE


Alice aveva voluto quanto Michael quella piccola, romantica casetta in montagna. Con amici e parenti aveva accampato le più varie motivazioni, infervorandosi con passione e trasporto. L’aria buona per i bambini, la pace, il silenzio, la montagna senza la schiavitù della macchina e altro ancora che, con grande fantasia, si inventava al momento. Un giorno era riuscita anche a dare una spiegazione pseudo- psicanalitica, meravigliandosi da sola. Gli altri la guardavano rapiti. Almeno all’inizio. Pensavano: “Accidenti che fortuna trovare un posto così!”. Solo un loro amico, per la verità non senza interesse, in quanto proprietario di un bell’albergo proprio nel paesino prescelto, disse che con i soldi spesi avrebbero potuto andare in vacanza in albergo, per un bel numero di anni. Da lui, era sottinteso.
Insieme avevano dedicato ogni momento alla sistemazione della casa. Prima mesi di cantiere e poi pulizie e ancora pulizie. Durante la settimana gli artigiani lavoravano e nel fine settimana Alice e Michael pulivano e rimettevano in ordine. La casa fu pronta velocemente e abitata ogni sabato e domenica. Durante le vacanze di Natale, quelle di Pasqua, a carnevale, ai Santi, durante le vacanze estive, meno tre settimane di mare a cui Alice non rinunciava. Trascorrevano ogni giorno libero nella casa in montagna.
L’appartamento in città era relegato ai giorni feriali. Trascorrervi un weekend era quasi una punizione. Alice sbrigava le cose di ogni giorno, meno uscire per la spesa e la domenica sera si sentiva frustrata ed insoddisfatta. Michael girava come un leone in gabbia, rompendo le scatole a tutti. Voleva dedicarsi a lavoretti tralasciati da tempo, ma doveva arrendersi all’evidenza dei fatti. Il trapano era nell’altra casa e anche la maggior parte degli attrezzi che avrebbe dovuto usare. Ogni tanto Michael metteva il naso fuori dalla finestra e incominciava una litania senza fine: “Guarda che aria sporca e senti che puzza. Guarda un po' se dobbiamo respirare questa schifezza. Non capisco perché la gente deve andare in giro con la tuta da ginnastica. La città mi fa venire i nervi. Qui non mi riposo. Non c’è niente da fare. Le montagne sono troppo lontane e poi quelle non sono nemmeno montagne... bla, bla, bla”. Una giornata snervante.
I loro figli avevano un atteggiamento differente. Il più grande, in età da ragazzine e hamburger, discuteva sul suo diritto di partecipare ai party organizzati dagli amici. Sempre di sabato, dal  pomeriggio alla sera. Più cresceva e più l’orario si allungava. Era una bella battaglia. Alice era rimasta molte volte in cittá aspettando il figlio festaiolo, per poi raggiungere l’altro pezzo di famiglia, partito subito dopo pranzo. Andava a prenderlo, puntuale e giá si sentiva la madre che rompe. Trovava suo figlio Robert stravolto, scamiciato, sudato e con i segni della Coca Cola sulla bocca, come i baffi di Aramis. Alice pensava alla preoccupazione nel giorno in cui avrebbe trovato un altro tipo di tracce. Robert saliva in macchina e per dieci minuti raccontava, senza prendere fiato, tutte le battute e gli avvenimenti significativi della festa, poi crollava per svegliarsi novanta chilometri dopo e ricadere nel sonno sotto il piumino.
Sophie era come suo padre, aspettava con ansia il sabato. La ragione principale era che lassú c’erano i suoi adorati animali: cani, gatti, cavalli, conigli, papere, mucche e anche jak. Per lei il genere umano poteva anche sprofondare, ma ... salvate gli animali! Per Sophie l’unico uomo meritevole di ricevere il premio Nobel era Noè. Recupereremo mai il torto fattogli?    
Domenica mattina, dopo una lauta e viziata colazione, Alice si metteva all’opera. Tirava fuori il vecchio aspirapolvere. Era così vecchio che la ditta aveva cessato la produzione dei sacchetti di carta. Alice per infinite volte l‘aveva svuotato aiutandosi con l’uncinetto, riempiendosi il naso di polvere e recuperando una trentina di pezzi di Lego, qualche elastico, una noce e cinquanta lire. Si chiedeva spesso se ve ne fossero ancora in giro di funzionanti o se il suo era l‘ultimo sopravvissuto. Comunque andava ancora. Beh, rantolava, più che altro. Ad Alice venivano da gonfiare le guance per aiutarlo, in un impeto di solidarietà. Quando Michael passava vicino, lei ad alta voce diceva “non tira! “oppure non va!”. Michael tirava dritto, indaffarato, tuttalpiù lanciava un distratto “hai cambiato il sacchetto?”
“Accidenti, quale sacchetto?” urlava Alice, proseguendo con “dovremmo comprarne un’altro!”
“In questa casa c’è sì un sacco, ma di polvere!”
Michael si girava a guardarla, faceva una bella fatica con quell’accidenti di aspirapolvere intasato e rantolante. Avrebbe dovuto proprio comprarne un altro. Poi si ricomponeva: “Non sia mai che dia ragione alla bieca logica del consumo. Il motore funziona bene. Mica ne compro un altro per accontentare una multinazionale! ”

Alice entrava in cucina a prendere la scopa.  

domenica 17 febbraio 2013

Bruna o il cane da tartufi - Donne sostituibili



BRUNA
o
IL CANE DA TARTUFI

“Chiudi gli occhi ... rilassati ...”
“Già, facile a dirsi, con tutto quello che ho da fare ... sì, mi rilasso ... e se mi viene in mente che non so cosa fare per cena?”
“... Rilassati e prova ad immaginare ... sei all’aperto, in un prato ...”
... No, sono in un bosco ...”
“Si va bene ... ecco, senti dei suoni leggeri  ... fruscii... canti di uccelli  ...”
“Sì li sento... il sole filtra tra i rami ... sento il canto degli uccellini ... mi viene in mente che mia madre una volta li ha fatti con la polenta e l’ho odiata”.
“No, non distrarti, non aprire gli occhi, concentrati ... sei nel bosco e sei un animale ...”
“Sì, un animale ... un cane ...”
“Un cane? Nel bosco?”
“Sì un cane, non che mi entusiasmi il fatto di essere un cane, io so fare tante cose benino e non so perché di un cattivo attore si dica che è un cane, i cani sono attori bravissimi, Lassie e Rin Tin Tin hanno fatto storia. Non capisco nemmeno se si dice - quello lavora come un cane - che qui da noi i cani non fanno niente tutto il giorno. Non è mica faticoso essere portato a passeggio tre volte al giorno per fare pipi e popò e poi stare sdraiati tutto il giorno su un tappeto.”
“Va bene, va bene, sei un cane ... cosa fai nel bosco? Annusi gli odori intensi della natura?”
“Vado a tartufi!”
“A tartufi? Sei un cane da tartufi? In tanti anni di terapia non ho mai sentito niente di simile. Un cane da tartufi, interessante! Cara Bruna, come mai?”
“Il cane da tartufi cerca, cerca incessantemente e mai per sè, trova sempre per l’uomo.”
“Sorbole! Tu cosa cerchi incessantemente?”
“Di tutto. Calzini, forbici, cacciaviti, mutande, nastro adesivo, occhiali, penne, libri, spaghetti, barattoli, calzascarpe, giornali, calcolatrici, tazze, smacchiatori, classificatori, ombrelli, pennelli, caramelle, cravatte, pinzette, dentifrici, sciroppo per la tosse, cerotti, cappotti ... di tutto, ecco.”
“Ma dove diavolo vivi? In un magazzino? Fai l’inventario?”
“A casa vivo, a casa mia, con marito e due figli.”                  
“Cerca di darmi una spiegazione logica, anche se dovrei dartela io.”
“Non trovano mai niente. Ma dico niente, mai niente. Dov’è questo, dov’è quello, è lì, non lo trovo. Non-lo-trovo. Mai una volta che trovino qualcosa. Anche se l’hanno davanti al naso e io che magari mi sono seduta in quell’istante, devo alzarmi e andare a prendere quello che cercano. Ti avevo detto che era qui. Non l’ho visto, ma se era davanti al naso! Non-l’ho- visto. Non ho mica una famiglia di talpe!”
    “Difficile darti il consiglio giusto, ehm, vediamo, potresti non cercare più niente e lasciarli nel loro brodo. Credo che un’indicazione verbale sia più che sufficiente, oppure fare una lista di oggetti con indicato il posto in cui trovarli, mmh, no, no, verrebbe fuori un libro grosso così. Cercherò di studiare un sistema soddisfacente per tutti. Puoi metterti la giacca, ne riparliamo la prossima volta.
A proposito, avevo qui la mia penna, l’hai vista per caso?” 

giovedì 7 febbraio 2013

Anna o il ferro da stiro - Donne sostituibili


ANNA
o
   IL FERRO DA STIRO

Nascere donna era così difficile! La strada le sembrava inesorabilmente in salita. Trovarsi poi ad organizzare e gestire una famiglia di uomini diventava un’impresa. Un marito e due figli maschi. Johannes, il marito, era un uomo curato ed elegante. Sempre a contatto con professionisti, curava molto il suo abbigliamento. Giacche di ottima fattura, pantaloni in lana fredda, solitamente grigi. Anna lo chiamava “color manager”. La piega sempre in ordine. Bellissime cravatte, comprate da sé. Quelle scelte dalla moglie venivano indossate nelle occasioni di famiglia. Anna pensava di avere sufficiente buon gusto, ma non collimava mai con quello del marito.
Johannes comprava i suoi abiti da solo. Ci metteva pochi minuti. Le poche volte che Anna l’aveva accompagnato era rimasta delusa e un po' frustrata. Come era possibile comprarsi un abito così costoso, senza provarsene almeno tre! Senza girare oziosamente nel negozio e farsi catturare da un colore, da una stoffa. Anna doveva sentire che quel capo era lì per lei. Che sarebbe stato perfetto. Doveva entrare dagli occhi per arrivare al cuore. Era un tragitto che occupava del tempo, un innamoramento. Johann comprava quando serviva. Si infilava una giacca e diceva “la prendo”. Punto e basta. Il padrone del bellissimo negozio lo amava. Era veloce, non gli faceva perdere tempo, era subito soddisfatto, pagava con carta di credito senza fiatare. Per questo gli mostrava i capi migliori e faceva subito uno sconto importante. Johannes portava a casa bellissime camicie e Anna alzava gli occhi al cielo. Sopra di lei incombeva la piccola, ma oscura ombra del ferro da stiro.
Simone, il figlio maggiore, aveva i suoi gusti. Braghe di due taglie più grandi, in cui le sue gambe da giraffa navigavano senza farsi mai vedere. Da come camminava si supponeva la loro presenza, ma chissà dove. Anna gli metteva una cintura sul letto e lui la ignorava. I pantaloni dovevano essere cascanti, la vita sui fianchi e il cavallo a metà coscia. L’elastico delle mutande rigorosamente in vista. Eresia parlargli di fare un orlo, almeno per salvargli i denti. Con le scarpe da ginnastica tecnologiche slacciate (numero 46, anche se portava il 44), scendeva le scale trascinando quindici centimetri di stoffa straripante. Anna pregava, pensando all’ultimo conto del dentista. Camicie, maglie, felpe erano in proporzione. Johannes sosteneva che più si allargavano i vestiti, più si restringeva il cervello. Lo chiamava “l’inversamente proporzionale”. Simone tornava in camera sua borbottando “out, out”. Si cambiava per uscire con Silvia, lasciando gli abiti ancora puliti in un mucchio accartocciato, che li avrebbe resi inservibili in pochi attimi. Qualche volta ci si sedeva sopra. Anna pensava che in quella felpa ci sarebbero stati tutti e due, lui e Silvia. Era meglio di un alcova. La mattina dopo Simone la guardava, con languido occhio bovino, implorando una stiratina. Per i professori, non per lui.
Luca era il più piccolo, ma guai a farglielo notare. Aveva un armadio generazionale. Pantaloni, camicie, maglie di tutte le misure, passati dal fratello e dai cugini. Lui ereditava con rassegnazione. Quando Simone  non era in casa, Luca si provava i sospirati pantaloni extra-large. Guardandosi allo specchio gli veniva da piangere. Possibile che non cresceva mai abbastanza? Luca, in quanto a disordine, batteva Simone cinque a uno. Con un’aggravante. Non erano solo mucchi più grandi, erano maleodoranti, quasi vivi. Anna si ricordava di quei vecchi film di fantascienza, in cui prendevano vita le cose più assurde e imprevedibili. Immaginava il mucchio puzzolente trascinarsi lentamente per il corridoio, lasciando una striscia grigiastra sul pavimento di frassino chiaro. Ogni sera Luca lasciava un ammasso composito. Calzini ripiegati su se stessi, accartocciati in modo doloroso. Pantaloni con ginocchia verdi d’erba e marroni di fango. ”Mamma, non capisci che i portieri devono cadere per parare?” Magliette con patacche variopinte qua e là. Luca aveva il potere di sporcarsi con qualunque cosa, cibo o altro. Aveva due mani sinistre senza essere mancino.
Anna possedeva una lavatrice eroica. Avrebbe meritato una medaglia al valore o almeno un titolo onorifico. La prima lavatrice Cavaliere del Lavoro. Lavorava incessantemente da anni senza prendersi mai ferie. Solo una volta si vendicò facendo un bucato a 90°, nonostante fosse programmata a 30°. Ridusse le magliette dei ragazzi a misura di Cicciobello e fu riportata alla ragione da un tecnico specializzato. Lo stenditoio in acciaio inox aveva ormai le stecche ricurve dal peso dei bucati stesi giorno dopo giorno. Un giorno o l’altro si sarebbe ripiegato in due, sfinito, con un lamento, per l’ultima volta.
Anna, sola in casa, affrontava quella battaglia quotidiana. L’asse da stiro gemeva sinistramente. Un piedino gommato liso la faceva lievemente dondolare. I fiori gialli della stoffa cominciavano a confondersi con i segni delle stirature. La collina formata dalle camicie di suo marito, non calava mai. Anna si perdeva pensando a quei manichini delle tintorie che, ad un comando, ingrassano di dieci chili stirando perfettamente la camicia che indossano. Una dopo l’altra, senza fatica. Un giorno suo marito entrò in casa, vide le pile di biancheria stirata, già  divise, pronte per essere messe negli armadi. Disse: ”che buon profumo di stirato!” . Anna gli chiese se non fosse il caso di prendere una donna in aiuto per stirare almeno la biancheria o una di quelle belle  macchine che vendevano sotto i Portici. Lui sorrise pieno di comprensione e dandole un buffetto sulla guancia, disse:
”Cara, tu sei così brava a stirare, perché vuoi spendere soldi per niente?”  

domenica 13 gennaio 2013

Elena o la lavastoviglie - Donne sostituibili





ELENA

o

LA LAVASTOVIGLIE



Elena amava Peter, suo marito. Non altrettanto il senso cameratesco che lui troppo spesso sfoderava. Gli bastava incontrare qualche amico, passeggiando per la città. La prima cosa che gli usciva dalla bocca era: ” Dai, vieni a cena ... o a pranzo. Quando vuoi, basta un colpo di telefono”. A lui bastavano dieci minuti di preavviso. Il tempo per stappare una buona bottiglia di vino. Si comportava così anche se gli amici diventavano due o quattro o otto. Più erano e più sfoggiava il suo istrionismo. Elena si arrabbiava regolarmente. Accidenti, sempre all’ultimo momento e mai che glielo chiedesse !
Peter era bravo in cucina. Aveva il gusto innato della decorazione, il senso della coreografia, nonostante fosse un pessimo ballerino. Elena, per quanti sforzi facesse, non riusciva mai a mettere le fette di prosciutto sul piatto in modo decente. Sembravano degli straccetti desolati, naufraghi sulla scialuppa di salvataggio in attesa di soccorso, con poche speranze. Peter li appoggiava con garbo a distanza perfetta. Gli orli creavano sfumature digradanti, come la sottile traccia di schiuma bianca, lasciata dalle onde sulla spiaggia. Qualsiasi piatto, anche il più semplice, diventava appetibile. Anche Elena era brava in cucina. Il suo metodo di cucinare era però diverso da quello del marito. Le regole che le erano state tramandate dalla madre erano sacre. Il Verbo. Purtroppo questo valeva anche per lui. Per Elena non vi erano paragoni. Giudicava la cucina della suocera tra il cinque e il sei meno meno. Spesso le discussioni della coppia vertevano su come si lessano le patate. Le patate erano l’indice delle differenze culturali tra italiani e tedeschi. Era probabile che la prima grande guerra fosse scoppiata per una disputa sulla cottura delle patate. Di spaghetti non si discuteva, lei aveva una famiglia italiana alle spalle, come garanzia. Però che fastidio, quando lui metteva quel pezzetto di burro sul ragù... Come al ristorante, su quei sughi indecifrabili (da bambina aveva sentito dire molte volte: non ordinate il ragù, chissà quali avanzi ci mettono dentro!) Per Elena, quel pezzo di burro era quasi un affronto.
Nelle cene con e per gli amici Peter prendeva il sopravvento, lei veniva delegata ai lavori minori. Addetta alla ricerca degli ingredienti. Lui non trovava mai niente. Era più creativo che pratico. Peter era affabile, buon conversatore, a volte distratto. Apriva le bottiglie di vino e riempiva i bicchieri  discretamente ma implacabilmente, gli ospiti diventavano loquaci e a volte si lasciavano andare sonnolenti sul grande divano. Il conteggio dei vuoti a fine serata era sempre una sorpresa. Elena cercava di dare il meglio di sé. Peter si sentiva già, il meglio. Lei portava in tavola cibi ben preparati. Piatti su piatti. Peter voleva anche i piattini per l’insalata, poi per il dolce. Cambiava  posate e bicchieri in un crescendo vorticoso. Dopo una cena che a calcolo calorico sarebbe bastata per tre giorni, sorridendo diceva: ”Come mai non c’è la frutta?” Elena si vergognava e al momento taceva imbarazzata. Tutte le stoviglie che normalmente erano ordinate in pila in un bel mobile di faggio, riempivano ora la cucina in un’accozzaglia disordinata, unta e piena di rimasugli. Non uno spazio vuoto. Elena si stupiva sempre di quanto spazio occupino tre cambi di bicchieri per otto persone. A fine serata il risultato era catastrofico. Il mattino seguente i bambini avrebbero fatto colazione presto ed Elena si rimboccava le maniche incominciando a lavare i piatti. Tutti i piatti e le posate e le pentole che possedeva erano lì.  Peter sfoderando il suo sorriso migliore le diceva:” Bella serata! Io vado a letto, ti aspetto di là. Ti ho aiutato, vero?”
Elena finiva a notte fonda. Si buttava nel letto, sfinita. Peter era girato di spalle, la luce accesa. Lei si avvicinava: “Tesoro...”
“Siii ...”
“Non potremmo comprare una lavastoviglie?”
Peter dormiva già .

giovedì 3 gennaio 2013

3 gennaio 1985 - 3 gennaio 2013



L`INIZIO DELLA MIA SECONDA VITA

Incomincio a districare una matassa aggrovigliata di ricordi:
Suoni
Colori
Persone
Discorsi o frasi
Occhi mani
Stoffe tessuti

I luoghi:
1. La prima casa, un piano sotto
2. La casa sulla città
3. Uffici di polizia
4. Un ufficio del tribunale
5. S. Giacomo

Si può ricordare, raccontare, leggere una storia diventata "di cronaca", al di fuori della
cronaca, al di fuori del già letto, scritto, raccontato?
Si può usare un filo diverso, una memoria delle cose, delle sensazioni.
Si possono dimenticare immagini violente (che sia una difesa?) e fermare in noi  tracce di odori, colori, suoni  incisi così profondamente da essere indelebili. Che sia una difesa?
Cerco una memoria diversa che mi aiuti a non dimenticare, cerco la mia personale ricostruzione dei fatti, che ho vissuto e che, raccontati da altri sono stati travisati, trasformati a tal punto da perdere il contatto con la realtà .



Una bambina   (Roma, 1979)
In giro per la città. Cosa fare con una bambina di dieci anni?
Lo zoo. Uguale e triste come nelle altre città. Il museo etrusco. Che sbadigli.  Trovato!  San Pietro.
Le cose di rito. Alla ricerca del punto da dove il colonnato si riduce alla metà della metà. Magia!
La basilica è ancora più grande, vista da un metro e mezzo scarso. Le scale per salire sulla cupola, fanno soffrire me, non lei. Dov’è il Papa? E quella è la piscina del Papa? E i giardini? Tutti suoi? Mamma, allora è ricco! 
La Pietà di Michelangelo la stupisce. Così piccola e bianca.
Al ritorno a casa di amici, le chiedono qual è la cosa più bella che ha visto: "la Pietanza di Michelangelo"!



1. Suoni

Un urlo. Profondo, violento, lontanissimo, come nel ricordo di altri tempi.
E' mio. Proviene da me, dalla mia bocca, dai miei polmoni, dallo stomaco, dalle mie viscere.
Rimane nell'aria un numero infinito di secondi. Poi, silenzio. Nessun suono rompe l' aria.
Niente auto, niente passi, voci di bambini, niente.
Nella mia testa il vuoto assoluto, la città ferma, immobile in un gelido, grigio pomeriggio di gennaio.
Poi altre voci, altre grida. Prima una, due, poi sempre di più in una confusione assordante, l' una sull'altra, rincorrersi e coprirsi, sovrastarsi e spegnersi, per poi ricominciare.
Tutte uguali. Dicono tutte le stesse cose, addirittura le stesse frasi, le stesse parole. Cerco parole diverse, guardo bocche diverse che ripetono parole uguali. Sembra abbiano imparato a memoria una poesia senza senso, rimbalza dall' uno all'altro.
Una sirena, forse due.
Un suono lungo e profondo.
Nella confusione lo scambio per un suono di speranza. Un' ambulanza. Uno straordinario mezzo di salvezza. Lentamente, come una stella cometa si allontana all' orizzonte, si spegne.
Sono sdraiata su un divano non mio e rumori di passi ovattati e bisbiglii vengono dal corridoio.
Non riconosco i passi e non capisco le parole. Qualche viso sconosciuto si affaccia alla porta, non riesco ad abbinarlo ai passi, ne alle parole.
E' notte. Esco di casa. Mi da fastidio il rumore dei tacchi sul marmo grigiastro dell'ingresso. Ho paura che mi vedano. Vado avanti perché altri passi accompagnano i miei, vorrei volare sopra il terreno e diventare trasparente.
Attraverso la città silenziosa e finalmente piango.


1. Stoffe - tessuti

La stanza che mi accoglie ha carta da parati. Forse una stoffa. Sono senza occhiali e non vedo bene. E’ damascata; forse andrebbe bene in un ampio salone, pieno di spazio vuoto. Questa stanza, abbastanza grande, é zeppa di mobili in stile e il disegno che si rincorre sulle pareti la rende più piccola, intima mai.


2. Stoffe - tessuti

Un fazzoletto bianco. Tutto intorno un pizzo leggero. Deve essere vecchio, forse un caro ricordo, sicuramente prezioso. Lo ricevo dalla più cara amica, in un momento di emozione. E` morbido e delicato. Penso che sia l' unico tocco di gentilezza. Quel fazzoletto così bianco racchiude in sé l' amore, la purezza, le cose più dolci della vita.


1. Occhi - mani

Ricordo bene i loro occhi sfuggenti. Occhi di giovani imbarazzati, che non hanno dove posare uno sguardo in questo giroscale di condominio.
I loro occhi vagano sperando di non incontrare i miei. Corpi con le mani nascoste. Chiedo di passare, non sanno rispondermi, sbarrano la scala con le loro divise carta da zucchero.
Si é formato un muro  di angoscia e di silenzio tra di noi. Mi giro e torno indietro.


1. Discorsi - frasi

Sdraiata su un divano non cerco nemmeno di capire.
Entra un uomo. Non lo conosco. Forse  dice il suo nome, il mio cervello non lo registra.
Dice poche parole, le butta su di me con noncuranza e mi ritrovo a fare conti assurdi e la mia vita finisce.
"Quanti coltelli ha in cucina ?"



1. Occhi - mani

“Io sono la nonna”.
Occhi, lo sguardo fisso a terra,  per non incontrare altro sguardo,  per non vedere.
Le sue belle mani senza energia, una a sorreggere il capo, l'altra abbandonata in grembo.
Un'immobilità che sprigiona dolore e sgomento. In modo automatico ripete a me e a se stessa:  "Stai tranquilla, stai tranquilla".
Due madri.


2. Persone

Nella stanza filtrano solo suoni ovattati. Discorsi sussurrati, passi leggeri. Ogni tanto qualcuno di famiglia viene a vedere se dormo o piango o desidero ricevere le visite degli amici più cari. Sono in molti e scopro la sincerità dei loro sentimenti insieme alle loro lacrime e alla loro incapacità di darmi conforto. Nel silenzio di quei momenti vi é tutta la verità  della nostra amicizia.
Ora mi dicono con un filo di voce che sono arrivati mio padre e mia madre. E’ un momento che temo. Ho bisogno di loro, ma non so affrontare tutto questo dolore. Ci abbracciamo fortissimo, siamo dei naufraghi attaccati ad una tavola che non può reggerci. Tra mia madre e me non ci possono essere parole, tutto é troppo grande per noi. "Papà" dico "non piangere" . Risponde solo : "Ti prego, lasciamelo fare, ne ho bisogno".


2. Persone

Mi annunciano una visita e si premurano di chiedermi se sto bene, se ce la faccio. Mi dicono che al citofono si presenta non con nome e cognome, ma con la qualifica : il Procuratore della Repubblica. Non mi angoscia la sua presenza, ma la mia impossibilità a dare risposte. Non so quanto tutto questo duri, mi accorgo che i miei parenti entrano spesso nella stanza per sincerarsi delle mie condizioni. Rispondo ad una sequenza infinita di domande che ritengo inutili, folli. Dovrei essere io a fare domande. Sono io che non capisco. Mi guarda fisso, con gli occhi lievemente socchiusi, mi fa sentire colpevole, sporca. Continua incessantemente a chiedere, mi pone più volte le stesse domande. Sono stanca, sfinita, vorrei stare sola,  mi chiede a bruciapelo: "Il suo ex-marito potrebbe uccidere sua figlia?". Un Procuratore pieno di tatto.


1. Persone

Non so quanto tempo é trascorso. Alla porta si affacciano spesso visi sconosciuti. Un uomo entra nella stanza, viene verso di me e mi rivolge alcune domande. Sembra prassi comune non presentarsi. Lo scambio per uno dei tanti poliziotti. Ho il tempo di dirgli che non so, non capisco, ed entra nella stanza un altro uomo che ad alta voce lo manda via e rivolgendosi a me : “Ma come, lei parla con un giornalista?”.


1. Persone

E’ strano, ma non riesco a ricordare il momento in cui ho visto Karl.
E’ questo uno dei momenti che il troppo dolore ha cancellato dalla mia mente. Ho la sensazione di avere vissuto solo occhi, sguardi persi nello stupore.


1. Persone

Arriva Giuseppe, uomo di chiesa. E’come se la mia anima si aprisse  di colpo. Mi esce dalla bocca un fiume incontrollato di parole. E’ seduto sul divano, vicino a me e ricordo solo che dice : “ No, non dire così”.
Mi dirà in seguito di essere rimasto impressionato dalla profondità dei miei discorsi, ma non ne ho che vaga  memoria.


1. Frasi

"Signora, guardi che qui non c´è il tenente Colombo!"
(un "signore" della Squadra Mobile)


3. Colori

Il poliziotto mi prende le dita ad una ad una e le preme sul cuscinetto intriso d´inchiostro nero. Poi ruotandole le appoggia sulla carta bianca.
Le mie impronte sono delle macchie informi. Mi spiegano che devono rilevarle per "escluderle" dalle altre. Mi sento a disagio. Mi viene dato un barattolo contenente una pasta biancastra da spalmare su quelle macchie nere. Mi lavo freneticamente quella fanghiglia dalle mani. Più e più volte, come se potessi lavare via tutto il dolore.


5. Persone

C´è troppa gente. Quasi non riesco ad entrare. Mi faccio strada sospinta da altri e trovo un posto nascosto. Vedo intorno i visi dei miei cari e molti volti sconosciuti. Davanti, a sinistra, un mare di fiori. Sono  spettatrice di un evento che non mi appartiene. Mia figlia è dentro di me insieme a quel mare di fiori.


5. Colori

Cammino dietro ad una macchina nera. È disperatamente lenta. Le sto troppo attaccata, fissando lo sguardo sul bianco della cassa. Mi ripeto ogni passo, che lei non è lì.


3. Persone

Mi fanno accomodare. Intorno alcune persone: il procuratore, una segretaria, un signore robusto, con un cappello in testa, di cui non afferro il nome.
Il procuratore inizia a parlare. Le sue frasi scivolano sulla mia mente senza lasciare traccia.
Prende un fascicolo con il nome della mia bambina scritto con un pennarello, lo apre, lo sfoglia lentamente, lo gira verso di me ponendomi una domanda che non sento. Sento le orecchie ronzare, la vista si appanna, mi sento scivolare verso il basso. Due braccia forti mi prendono e insieme chiudono con stizza la teca con la fotografia di mia figlia morta.
Ho continuato a pensare al tenente Nocito come ad un angelo.


5. Persone

Non ho la forza di mettermi, con alcuni dei miei familiari, in fila a stringere mani.
Mi avvio lentamente verso l´ingresso principale, che mi pare lontanissimo. Sento dei passi seguirmi e una voce maschile pronunciare il mio nome. Il mio direttore si fa avanti, commosso. L'unica persona che è riuscita a vincere il muro impenetrabile di dolore che mi si è costruito intorno. 


5. Persone

La macchina mi aspetta davanti all'ingresso principale. Sul sedile posteriore è seduta mia madre. Non so come sia arrivata lì, prima di me. Immagino il suo passo veloce, gli occhi fissi a terra, per non vedere nessuno e con la speranza infantile di non essere vista. Mi siedo nell' auto, gli occhi sfuggenti, ci scambiamo una frase banale per non superare quel sottile velo che ci separa da un pianto irrefrenabile.


Colori - Occhi - Mani


Ho bisogno di vederla. Devo ritrovarla. Il giaccone nero ha il cappuccio alzato, il bordo di pelliccia grigia incornicia il suo volto.
Sotto, la sua prima camicetta da sera, grigio argento ed il pullover che le avevo fatto, una nuvola rosa. Piccoli fiori tra le dita intrecciate e vicino, la sua bambola, per non farle troppo male.
Di ogni cosa ho memoria, non del suo volto.
Esco, disperata, dicendo che non é lei. 
1. Occhi

Non so che ore siano. Arrivano due amici. Uno è un noto politico, l' unico che abbia visto, ma soprattutto un ottimo amico. Gli occhi azzurri, con un'espressione allibita, pendono all'ingiù. Un abbraccio e una frase: "E noi che abbiamo parlato tanto di non violenza!" 


L’immaginario non è mai tanto violento, quanto la realtà.





La farfalla
La fragilità delle ali su un corpo tozzo. La bellezza dei colori e il grigio vellutato.
Una farfalla segue la mia vita. Da pochi anni. Non da sempre.
Una farfalla brunetta.
Le ali a piccole macchie arancioni. Sembra che un raggio di sole si sia posato un istante, lasciando un segno indelebile.
Un segno. Il segno.
Appare all’improvviso.
Sempre in momenti particolari.
Mi gira intorno più volte. Si ferma. Un fremito nelle ali.
A volte sulle mani, a volte su una spalla. Vola nuovamente in cerchio. Cinque, dieci minuti. E via.
A volte torna dopo qualche ora. A volte passano mesi.
Sempre in momenti particolari. Mai per caso.
Vicino ad un nonno ancora inconsapevole della sua malattia. Vola a lungo e lui la riconosce. Dice: vedi, è qui. Passano mesi difficili. Torna a posarsi su mani di donna. L’uomo della sua vita se ne è andato. La farfalla brunetta posa i suoi milligrammi che sollevano lo spirito. Dice: vedi, sono qui. Appare quando la nostalgia mi avvolge. Anche in una sera di dicembre. Fuori gela. Grandi ali volteggiano in casa. Lo stupore è grande. L’accompagniamo delicatamente fuori. Ho paura che muoia di freddo. So invece che non sarà così. Mi lascia sul tavolo un piccolissimo frammento di colore.
Dice: vedi, sono sempre qui.