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IL FERRO DA STIRO
Nascere donna era così difficile! La
strada le sembrava inesorabilmente in salita. Trovarsi poi ad organizzare e
gestire una famiglia di uomini diventava un’impresa. Un marito e due figli
maschi. Johannes, il marito, era un uomo curato ed elegante. Sempre a contatto
con professionisti, curava molto il suo abbigliamento. Giacche di ottima
fattura, pantaloni in lana fredda, solitamente grigi. Anna lo chiamava “color
manager”. La piega sempre in ordine. Bellissime cravatte, comprate da sé.
Quelle scelte dalla moglie venivano indossate nelle occasioni di famiglia.
Anna pensava di avere sufficiente buon gusto, ma non collimava mai con quello
del marito.
Johannes comprava i suoi abiti da solo.
Ci metteva pochi minuti. Le poche volte che Anna l’aveva accompagnato era
rimasta delusa e un po' frustrata. Come era possibile comprarsi un abito così
costoso, senza provarsene almeno tre! Senza girare oziosamente nel negozio e
farsi catturare da un colore, da una stoffa. Anna doveva sentire che quel capo
era lì per lei. Che sarebbe stato perfetto. Doveva entrare dagli occhi per
arrivare al cuore. Era un tragitto che occupava del tempo, un innamoramento.
Johann comprava quando serviva. Si infilava una giacca e diceva “la prendo”.
Punto e basta. Il padrone del bellissimo negozio lo amava. Era veloce, non gli faceva
perdere tempo, era subito soddisfatto, pagava con carta di credito senza
fiatare. Per questo gli mostrava i capi migliori e faceva subito uno sconto
importante. Johannes portava a casa bellissime camicie e Anna alzava gli occhi al
cielo. Sopra di lei incombeva la piccola, ma oscura ombra del ferro da stiro.
Simone, il figlio maggiore, aveva i
suoi gusti. Braghe di due taglie più grandi, in cui le sue gambe da giraffa
navigavano senza farsi mai vedere. Da come camminava si supponeva la loro
presenza, ma chissà dove. Anna gli metteva una cintura sul letto e lui la
ignorava. I pantaloni dovevano essere cascanti, la vita sui fianchi e il
cavallo a metà coscia. L’elastico delle mutande rigorosamente in vista. Eresia
parlargli di fare un orlo, almeno per salvargli i denti. Con le scarpe da
ginnastica tecnologiche slacciate (numero 46, anche se portava il 44), scendeva
le scale trascinando quindici centimetri di stoffa straripante. Anna pregava,
pensando all’ultimo conto del dentista. Camicie, maglie, felpe erano in
proporzione. Johannes sosteneva che più si allargavano i vestiti, più si
restringeva il cervello. Lo chiamava “l’inversamente proporzionale”. Simone
tornava in camera sua borbottando “out, out”. Si cambiava per uscire con
Silvia, lasciando gli abiti ancora puliti in un mucchio accartocciato, che li
avrebbe resi inservibili in pochi attimi. Qualche volta ci si sedeva sopra.
Anna pensava che in quella felpa ci sarebbero stati tutti e due, lui e Silvia.
Era meglio di un alcova. La mattina dopo Simone la guardava, con languido
occhio bovino, implorando una stiratina. Per i professori, non per lui.
Luca era il più piccolo, ma guai a
farglielo notare. Aveva un armadio generazionale. Pantaloni, camicie, maglie di
tutte le misure, passati dal fratello e dai cugini. Lui ereditava con
rassegnazione. Quando Simone non
era in casa, Luca si provava i sospirati pantaloni extra-large. Guardandosi
allo specchio gli veniva da piangere. Possibile che non cresceva mai abbastanza? Luca, in quanto a disordine, batteva Simone cinque a uno. Con un’aggravante.
Non erano solo mucchi più grandi, erano maleodoranti, quasi vivi. Anna si
ricordava di quei vecchi film di fantascienza, in cui prendevano vita le cose
più assurde e imprevedibili. Immaginava il mucchio puzzolente trascinarsi
lentamente per il corridoio, lasciando una striscia grigiastra sul pavimento di
frassino chiaro. Ogni sera Luca lasciava un ammasso composito. Calzini
ripiegati su se stessi, accartocciati in modo doloroso. Pantaloni con ginocchia
verdi d’erba e marroni di fango. ”Mamma, non capisci che i portieri devono
cadere per parare?” Magliette con patacche variopinte qua e là. Luca aveva il
potere di sporcarsi con qualunque cosa, cibo o altro. Aveva due mani sinistre senza
essere mancino.
Anna possedeva una lavatrice eroica. Avrebbe meritato una
medaglia al valore o almeno un titolo onorifico. La prima lavatrice Cavaliere
del Lavoro. Lavorava incessantemente da anni senza prendersi mai ferie. Solo
una volta si vendicò facendo un bucato a 90°, nonostante fosse programmata a
30°. Ridusse le magliette dei ragazzi a misura di Cicciobello e fu riportata
alla ragione da un tecnico specializzato. Lo stenditoio in acciaio inox aveva
ormai le stecche ricurve dal peso dei bucati stesi giorno dopo giorno. Un
giorno o l’altro si sarebbe ripiegato in due, sfinito, con un lamento, per
l’ultima volta.
Anna, sola in casa, affrontava quella battaglia
quotidiana. L’asse da stiro gemeva
sinistramente. Un piedino gommato liso la faceva lievemente dondolare. I fiori
gialli della stoffa cominciavano a confondersi con i segni delle stirature. La
collina formata dalle camicie di suo marito, non calava mai. Anna si perdeva
pensando a quei manichini delle tintorie che, ad un comando, ingrassano di
dieci chili stirando perfettamente la camicia che indossano. Una dopo l’altra,
senza fatica. Un giorno suo marito entrò in casa, vide le pile di biancheria
stirata, già divise, pronte per
essere messe negli armadi. Disse: ”che buon profumo di stirato!” . Anna gli
chiese se non fosse il caso di prendere una donna in aiuto per stirare
almeno la biancheria o una di quelle belle macchine che vendevano sotto i Portici. Lui sorrise pieno di comprensione e dandole un buffetto
sulla guancia, disse:
”Cara, tu sei così brava a stirare,
perché vuoi spendere soldi per niente?”
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